- giovedì 8 novembre 2018 19:30
Mussapi legge Campana
- serata a cura di Roberto Mussapi
Dino Campana è nel pantheon di Roberto Mussapi sin dalle origini e dai fondamenti della sua poesia. Accanto a Coleridge, Whitman, Yeats, Luzi, che considerava Campana uno dei massimi del Novecento.
Mussapi legge dai Canti Orfici i versi “del poeta dell’ energia elettrica del porto, del cielo sanguinante di Genova, del viaggio verso Montevideo. Poeta della visione, discendente di Orfeo e Whitman.”
Massimo Morasso su Roberto Mussapi:
“Da tempo, Roberto Mussapi si cimenta nel dar voce ai testi di Campana.
Nel 2011, in prossimità dell’ottantesimo anniversario della morte del poeta (1885-1932), ha concepito una raccolta antologica dei Canti Orfici che è stata pubblicata in un prezioso libro pop up realizzato in sole 100 copie numerate per la holding finanziaria Hofima, a mia cura.
Il libro - che viene definito nel colophon un “progetto polimediale” - in seconda di copertina contiene un CD con la registrazione della lettura di Mussapi dai Canti Orfici di Campana. Quella di Mussapi per Hofima è la prima lettura d’autore di Campana in Italia dopo le due celeberrime di Carmelo Bene a Milano nel 1982 e a Roma nel 1994.
Per Mussapi, che oltre a essere uno dei più importanti poeti italiani contemporanei è anche uomo di teatro, l’aspetto orale e la recitazione della poesia non sono dei meri corollari all’attività poetica, quanto, piuttosto, attività congenite al lavoro su e con la parola.”
Roberto Mussapi nel suo libro di saggi Il centro e l’orizzonte (Jaca Book, 1985) scrive:
“Dino Campana vi arrivò al tramonto. Genova gli si impresse indelebilmente, per sempre. Lo spirito di Colombo, che aveva segnato Walt Whitman, il grande poeta americano che dai suoi spazi oltreatlantici guardava al genovese come padre fondatore dell ‘America. Ne vide il rossore animante nel cielo di Genova: elettrico, brulicante di un ardore rossastro accendeva “i cubi degli alti palazzi”, penetrava nei vicoli più riposti, lo vide rosseggiare sulle navi che salpavano, imprimere un brivido lacerante alle grandi chiglie che si allontanavano verso la nera notte, penetrare come un’ascia sulla cresta del mare imprimendo luce sanguinolenta alle scie, mentre gli occhi dei marinai già si perdevano nelle brume dell’orizzonte. Poi lo vide impennarsi, brillare di “lune elettriche”quando già le navi erano terrazze gigantesche oscillanti nello loro luci, quarti di città che si staccavano dalla banchina verso “la città notturna”. Prendeva forma ai suoi occhi nelle tolde illuminate, nelle superfici chiare sul mare, la sua “patria antica” in attesa nella notte.
Sentì nella notte genovese il moto inarrestabile delle navi nell’ oscurità, l’energia che nasce dalla “piaga che sanguina”, “la piaga rossa languente”, e se ne alimenta. Aveva visto la città-porto scivolare nel sonno: “il porto che si addorme, il porto il porto”, colto l’attimo in cui le macchine e le funi e le braccia e le mani degli uomini rallentavano il loro moto: “l’albero oscilla a tocchi nel silenzio.” Il suo occhio si fermò sulle “finestre ventose del vico marinaro”, vetri che non fermavano il vento ma se ne lasciavano attraversare, si spinse oltre i “grigi rossori” della sua “ardesia”, contemplò “finestre lucenti come stelle”, vide in Genova la “femmina dei porti”, la “donatrice”, si ritrovò “nel salido odore del vento”, nella “melodia di lontani canti sperduti. Vide “l’anima vivente delle cose”, nel brulicare dei portuali che arrotolavano le gomene, issavano le balle, nei vecchi che incatramavano le funi, nei vapori incendiati dei cavi, trovò “le forme molteplici / che muovono e cantano e stridono/ elettrizzate.” La nominò tre volte, invocandola: l’ultimo verso dell’Anima vivente delle cose fu “Genova Genova Genova.””